Conoscibilità da parte di terzi e individuabilità della vittima: la Cassazione ritorna sulla diffama

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Cass. pen., Sez. I, 22 gennaio 2014 (dep. 16 aprile 2014), n. 16712; Pres. Siotto, Rel. La Posta, P.M. in proc. Sarlo

 

 


VICENDA IN FATTO


Il maresciallo della Guardia di Finanza della compagnia di San Miniato a seguito della pubblicazione, sul proprio profilo Facebook, della frase: «…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto…per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie», viene condannato dal Tribunale militare di Roma, con sentenza del 21 febbraio 2012, a tre anni di reclusione per diffamazione pluriaggravata.
La Corte militare d’appello, con sentenza del 28 novembre 2012, riforma la decisione del giudice di prime cure, assolvendo l’imputato per insussistenza del fatto. L’iter argomentativo seguito dalla Corte si fonda su un duplice ordine di considerazioni: sotto il profilo oggettivo, il tenore della frase pubblicata sul social network consentirebbe l’individuazione della persona offesa solo da parte di una cerchia ristretta di persone, in quanto l’autore non avrebbe fornito indicazioni sulle generalità della persona offesa, né alcun riferimento cronologico; sul piano soggettivo, mancherebbe la prova del dolo dell’agente, ossia la dimostrazione che la condotta di quest’ultimo fosse intenzionalmente preordinata a comunicare con più soggetti in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie.
Avverso la sentenza di secondo grado, il Procuratore Generale presso la Corte militare d’appello propone ricorso per Cassazione, invocando la violazione di legge e il vizio della motivazione. In particolare, il Procuratore afferma come la pubblicazione di frasi su internet implica ex se, come riconosciuto in giurisprudenza, la conoscibilità di quanto scritto da parte di una pluralità di persone: il reato si perfeziona in tale momento, a prescindere dall’effettiva lettura delle frasi diffamatorie da parte degli altri utenti. Inoltre, nella pubblicazione compaiono elementi lessicali idonei a consentire, sul piano cronologico e fattuale, l’individuazione del destinatario della pubblicazione, quali l’avverbio «attualmente», la qualificazione della persona offesa come «collega» e «ammogliato», la «defenestrazione» lavorativa di cui il destinatario del commento sarebbe causa.

 

LA QUESTIONE GIURIDICA


La pronunzia della Corte di Cassazione è strutturalmente scindibile in tre parti, nelle quali il Collegio verifica separatamente se, nel caso concreto, sussistono o meno gli elementi richiesti, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo, per la realizzazione del reato di diffamazione ex art. 595 c.p.
Il primo requisito analizzato dalla Suprema Corte è quello della sufficiente determinatezza del destinatario dell’offesa. La Corte osserva come il contenuto della pubblicazione diffamatoria sul profilo Facebook sia connotato dall’uso di locuzioni e termini tali che finiscono per consentire un’agevole individuazione della persona offesa. L’autore della diffamazione non solo ha collegato le qualificazioni negative di «raccomandato» e «leccaculo» ad un soggetto che risulta essere «collega» del primo e che sarebbe succeduto all’imputato nella funzione di comando che questi esercitava, ma ha altresì circoscritto temporalmente la propria condizione di “defenestrato” usando l’avverbio «attualmente»: nel complesso, afferma la Corte, le frasi pubblicate presenterebbero un contenuto tale da consentire un collegamento sufficientemente preciso, ancorché implicito, tra il destinatario della pubblicazione e il contenuto negativo della stessa.
Il reato di diffamazione postula, inoltre, che l’offesa alla reputazione avvenga comunicando con più persone. La valutazione circa la sussistenza o meno di tale elemento è strettamente correlata alla particolare struttura del mezzo attraverso cui le frasi diffamatorie sono veicolate, ossia il social network Facebook. La Corte si limita a richiamare la consolidata, seppur scarsa, giurisprudenza sul punto, in virtù della quale l’immissione di un’informazione nella rete internet (su cui opera il social network qui considerato) integra di per sé, salva prova contraria, il requisito della comunicazione con più persone. Peraltro, osserva la Suprema Corte, lo stesso giudice d’appello aveva riconosciuto in astratto la sussistenza dell’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, ai sensi dell’art. 595, co. 3, salvo poi pervenire alla conclusione che le frasi diffamatorie erano giunte a conoscenza solo di una cerchia ristretta di persone: ed è proprio qui che si annida la critica di intrinseca contradditorietà della decisione di secondo grado. Tale profilo di criticità della sentenza impugnata sarebbe emerso con forza ancora maggiore se la Corte di Cassazione avesse speso qualche parola in più sul funzionamento di Facebook, sottolineando come la pubblicazione di una frase sul solo profilo personale di un soggetto non garantisce affatto che della medesima abbia conoscenza solamente un novero ristretto di iscritti al social network: al contrario, tale pubblicazione risulta accessibile a tutti coloro che vantino lo status di “amico” dell’agente e, mediante il meccanismo dei c.d. tag, la capacità diffusiva della notizia aumenta esponenzialmente, divenendo conoscibile da parte di tutti i fruitori del social network.
Appurata la sussistenza di entrambi i requisiti oggettivi del reato di diffamazione, la Corte analizza infine i profili soggettivi della vicenda. In particolare, si ritiene non fondata sul piano logico-giuridico l’asserzione della Corte d’appello per la quale, dalla circostanza che le frasi sarebbero giunte a conoscenza di una cerchia ristretta di soggetti, deriverebbe la prova dell’assenza della volontà lesiva dell’imputato di comunicare tale contenuto diffamatorio a più persone. La Suprema Corte osserva che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 595 c.p. non richiede un dolo specifico, essendo sufficiente la coscienza e volontà di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione, portandola a conoscenza di almeno due soggetti e, pertanto, l’elemento soggettivo può assumere le fattezze tanto del dolo generico quanto del dolo eventuale.

 

Estremi normativi – precedenti giurisprudenziali – sentenze menzionate


Estremi normativi: art. 595 c.p.

Precedenti richiamati nella sentenza:
-Cass. pen., sez. 5, 20 dicembre 2010 (dep. 25 febbraio 2011), n. 7410, Rv. 249601;

Altri riferimenti giurisprudenziali:
-Cass. pen., sez. 5, 11 maggio 1999 (dep. 11 giugno 1999), n. 7597, Rv. 213631;
-Cass. pen., sez. 5, 8 luglio 2008 (dep. 14 agosto 2008), n. 33442, Rv. 241548;